Gilbert Achcar: Sulle rivoluzioni in Medioriente e Nord Africa (Italian: Gilbert Achcar on the undying revolutions in the Middle East and North Africa)

         
by Gilbert Achcar • Published 7 January 2020

Gilbert Achcar intervistato per Marxist Left Review da Darren Roso. Tradotto da compagni su rproject.it

Cominciamo tornando a quello che ora sembra essere un lontano ricordo: l’onda d’urto rivoluzionaria che ha attraversato il mondo arabo nel 2011. Nel tuo libro The People Want: A Radical Exploration of the Arab Uprising (1) hai sostenuto che questi eventi erano solo l’inizio di un lungo processo rivoluzionario a causa della natura specifica del capitalismo in Medio Oriente. Potresti spiegare queste dinamiche dell’economia politica nel mondo arabo e il loro rapporto con le forme di governo autoritario?

Per iniziare con una considerazione generale, è ovvio che ora stiamo assistendo a una grave crisi globale di questa epoca neoliberistica del capitalismo. Il neoliberismo si è sviluppato come una vera e propria fase capitalistica dall’applicazione del suo paradigma economico negli anni ’80. Questa fase è entrata in crisi con la Grande Recessione di un decennio fa. La crisi si sta svolgendo sotto i nostri occhi, con il risultato di sconvolgimenti sociali sempre crescenti. Se guardi oggi a ciò che sta accadendo in Cile, Ecuador, Libano, Iraq, Iran, Hong Kong e molti altri paesi, sembra che il punto di fermento sia stato raggiunto da sempre più Paesi.

Gli eventi nella regione araba rientrano sicuramente in questa crisi globale generale. Ma c’è qualcosa di specifico in questo sconvolgimento regionale. Qui, le riforme neoliberistiche sono state attuate in un contesto dominato da un tipo specifico di capitalismo – determinato dalla particolare natura del sistema statale regionale che è caratterizzato da una combinazione in varie proporzioni di stato rentier e patrimoniale, o neo-patrimoniale. Quello che è principalmente specifico per la regione è l’elevata concentrazione di Stati completamente patrimoniali, una concentrazione senza eguali rispetto qualsiasi altra parte del mondo.

Patrimonialismo significa che le famiglie dominanti possiedono lo Stato, sia che lo possiedano per legge in condizioni assolutistiche o semplicemente di fatto. Queste famiglie considerano lo Stato come proprietà privata, e le forze armate – in particolare gli apparati armati d’élite – come loro guardia privata. Queste caratteristiche spiegano perché le riforme neoliberistiche hanno ottenuto i loro peggiori risultati economici nella regione araba rispetto tutte le altre parti del mondo. I cambiamenti di ispirazione neoliberistica raggiunti nella regione hanno determinato i tassi più lenti di crescita economica rispetto a qualsiasi altra parte del mondo in via di sviluppo e, di conseguenza, i più alti tassi di disoccupazione nel mondo, in particolare riguardo la disoccupazione giovanile.

La ragione di tutto questo non è difficile da capire: il dogma neoliberista si basa sul primato del settore privato, l’idea che il settore privato dovrebbe essere la forza trainante dello sviluppo, mentre le funzioni sociali ed economiche dello Stato devono essere ridotte. Questo assioma afferma in poche parole: introdurre misure di austerità, ridurre la partecipazione dello stato, tagliare le spese sociali, privatizzare le imprese statali, lasciare la porta aperta all’impresa privata e al libero mercato e vedrete che accadranno miracoli.

Ora, in un contesto privo dei prerequisiti del capitalismo di tipo ideale, a partire dallo Stato di diritto e dalla stabilità (senza i quali non possono avvenire investimenti privati per lo sviluppo a lungo termine), ciò che si ottiene è che la maggior parte degli investimenti privati si concentri nella ricerca di un rapido profitto e nella speculazione, specialmente nel settore immobiliare insieme a quello dell’edilizia, ma non nell’industria manifatturiera o in agricoltura, non nei settori produttivi chiave.

Questo ha creato un blocco strutturale dello sviluppo. Pertanto, la crisi generale dell’ordine neoliberistico globale nella regione araba va oltre quella del neoliberismo in una crisi strutturale del tipo di capitalismo che vi prevale. Non vi è quindi via d’uscita dalla crisi nella regione con un semplice cambiamento delle politiche economiche nel quadro attuale di regimi esistenti. Una mutazione radicale dell’intera struttura sociale e politica è indispensabile, senza la quale non ci sarà fine all’acuta crisi socio-economica e alla destabilizzazione che colpisce l’intera regione.

Per questo motivo un’onda d’urto rivoluzionaria così impressionante ha sconvolto l’intera regione nel 2011, piuttosto che semplici proteste di massa. La prospettiva era davvero insurrezionale, con la gente che urlava “Il popolo vuole la caduta del regime!” – lo slogan che è diventato onnipresente nella regione dal 2011. La prima ondata rivoluzionaria di quell’anno ha scosso fortemente il sistema regionale degli Stati, rivelando che era entrato in una fase terminale. Il vecchio sistema sta morendo irreversibilmente, ma il nuovo non può ancora nascere – mi riferisco, ovviamente, alla famosa frase di Antonio Gramsci – ed è allora che iniziano a comparire i “fenomeni morbosi”. Ho usato questa frase come titolo del seguito, pubblicato nel del 2016 [Morbid Symptoms: Recapse in the Arab Uprising. Ndt] (2) del mio The People Want del 2013 .

È vero dire che le misure neoliberistiche nel mondo arabo hanno avuto una accelerazione nonostante l’impennata rivoluzionaria? I prezzi del cibo egiziano stanno aumentando insieme ai prezzi dell’elettricità e del carburante, le stime prudenti della Banca Mondiale affermano che circa il 60% degli egiziani è “povero o vulnerabile”, tutto questo mentre il regime ha reiterato la sua repressione contro i manifestanti. Puoi parlarci del rapporto tra controrivoluzione e neoliberismo?

L’Egitto fornisce un ottimo esempio. Quando la grande recessione ha colpito nel 2008, molti hanno creduto che avesse segnato la fine del neoliberismo e che il pendolo sarebbe tornato indietro verso il paradigma keynesiano. Questa fu, tuttavia, un’enorme illusione per la semplice ragione che le politiche economiche non sono determinate da considerazioni intellettuali ed empiriche; lo sono invece e soprattutto dall’equilibrio delle forze di classe.

La svolta neoliberistica è stata guidata dagli anni ’80 da quelle frazioni della classe capitalista che avevano un interesse acquisito nella finanziarizzazione.

Per realizzare lo spostamento da questo, è necessario un cambiamento nell’equilibrio sociale delle forze, con un impatto sull’equilibrio tra i diversi settori della stessa classe capitalista, un cambiamento almeno equivalente a quello che ebbe luogo negli anni ’70 e ’80.

Questo non è ancora accaduto e le forze progressiste contrarie al neoliberismo non si sono ancora dimostrate abbastanza forti da imporre tale cambiamento. I neoliberisti stanno ancora dirigendo lo spettacolo: affermano che la ragione della crisi globale non è il neoliberismo ma la mancanza di una completa attuazione delle sue indicazioni. Sebbene nel 2008-2009 abbiano fatto ricorso in maniera massiccia a misure che contraddicono il loro stesso dogma, come l’enorme salvataggio del settore finanziario mediante fondi statali, sono rapidamente tornati sempre più alle stesse politiche neoliberistiche spinte sempre più oltre.

Questo è esattamente quello a cui abbiamo assistito nella regione araba, nonostante la gigantesca onda d’urto rivoluzionaria che ha sconvolto l’intera regione nel 2011. Quasi ogni singolo Paese di lingua araba ha visto un massiccio aumento di proteste sociali nel 2011. Sei dei Paesi della regione – cioè più di un quarto di quelli che la compongono – hanno assistito a massicce rivolte. Eppure, la “lezione” secondo l’FMI, la Banca mondiale, questi guardiani dell’ordine neoliberistico, è che tutto ciò è accaduto perché le loro misure neoliberistiche non erano state attuate abbastanza a fondo! La crisi, sostenevano, era dovuta all’insufficiente smantellamento dei resti del vecchio stato sociale. Hanno affermato che la soluzione è porre fine a tutte le forme di sussidi sociali, anche più radicalmente di quanto era già accaduto.

Tuttavia, la ragione per cui i governi della regione non hanno effettivamente fatto di più è perché hanno avuto paura di farlo. Questa [la regione mediorientale, ndt] non è l’Europa orientale dopo la caduta del muro di Berlino, quando le persone hanno ingoiato la pillola molto amara di enormi cambiamenti neoliberistici nella speranza che ciò portasse loro la prosperità capitalistica. Nel mondo arabo, le persone non sono disposte a pagare il prezzo per questo perché non hanno l’illusione che i loro Paesi diventeranno come l’Europa occidentale come gli europei dell’est sono stati spinti a credere. Pertanto, al fine di imporre ulteriori misure neoliberistiche, è necessaria una forza brutale. L’Egitto è quindi un chiaro esempio del fatto che la realizzazione del neoliberismo non va di pari passo con la democrazia, come affermava la fantasiosa “fine della storia” di Fukuyama trent’anni fa.

L’Egitto mostra chiaramente che per attuare a fondo il programma neoliberistico nel Sud del mondo sono necessarie delle dittature. La prima concretizzazione di questo assioma è avvenuta ovviamente nel Cile di Pinochet. In Egitto, è ora la dittatura post 2013 guidata dal feldmaresciallo Sisi – il regime più brutalmente repressivo che gli egiziani hanno conosciuto da molti decenni. È andato molto oltre nell’attuare l’intero programma neoliberistico sostenuto dall’FMI, con un costo enorme per la popolazione, con un forte aumento del costo della vita, dei prezzi dei prodotti alimentari, dei prezzi dei trasporti, di tutto. La vita delle persone è stata completamente devastata. Il motivo per cui la rabbia non è esplosa su vasta scala nelle strade è che gli egiziani sono scoraggiati dal terrore statale. Ma la piena attuazione delle misure neoliberistiche del FMI non ha e non produrrà alcun miracolo economico. Le tensioni si stanno così accumulando e prima o poi il Paese scoppierà di nuovo. Lo scorso settembre c’è già stata un’esplosione circoscritta di rabbia popolare; prima o poi ce ne sarà una molto più grande.

Sebbene i contesti differiscano e la specificità sia sempre importante, perché la barbarie ha continuato a prevalere sui movimenti democratici e dei lavoratori nel mondo arabo? Quali e perché sono stati i punti di svolta della sconfitta nella regione dal 2011? Qual è lo stato della sinistra egiziana e del movimento dei lavoratori di fronte all’ultraliberismo di Sisi e alla sua brutalità autoritaria?

Sfortunatamente, sia il movimento di sinistra che quello dei lavoratori in Egitto stanno in cattive condizioni. Hanno subito una sconfitta dolorosa, non solo a causa del brutale ritorno della repressione, ma anche delle loro stesse contraddizioni e illusioni. La maggior parte della sinistra egiziana ha seguito una strada politicamente anomala, passando da un’alleanza sbagliata a un’altra: dai Fratelli musulmani ai militari. Nel 2013, la maggior parte della sinistra e dei sindacati indipendenti hanno sostenuto il colpo di Stato di Sisi in modo molto miope, sostenendo l’illusione che l’esercito avrebbe riportato il processo democratico sulla buona strada. Pensavano che sbarazzarsi di Morsi e dei Fratelli Musulmani, dopo il loro anno al potere, avrebbe riaperto la strada per promuovere il processo rivoluzionario anche se grazie ai militari.

Sembra piuttosto sciocco, ma hanno davvero serbato questa illusione, che i militari hanno favorito nella fase iniziale del colpo di Stato. I militari hanno persino cooptato il capo dei sindacati indipendenti nel loro primo governo seguito al colpo di Stato. (3) Questo terribile errore ha screditato la sinistra e il movimento dei lavoratori indipendente . Di conseguenza, l’opposizione di sinistra adesso in Egitto è molto indebolita ed emarginata.

Non mi riferisco qui alla sinistra radicale marxista, che è sempre stata marginale, sebbene a volte abbia avuto un ruolo sproporzionato durante lo sconvolgimento rivoluzionario del 2011-13. Sto parlando della sinistra più ampia, quella che faceva appello alle grandi masse. Questa sinistra più ampia ha perso gran parte della sua credibilità dopo il 2013. Questo è in realtà un motivo cruciale per cui le persone non si sono mobilitate in modo massiccio contro il nuovo assalto neoliberistico. Quando non c’è un’alternativa credibile, le persone tendono ad assimilare il discorso del regime che dice: “noi o il caos, noi o una tragedia simile alla Siria. Devi accettare il nostro tallone di ferro. Sarà dura, ma alla fine avrai prosperità”.

A tutto ciò si lega un’altra specificità del processo rivoluzionario regionale, di cui la Siria è l’immagine più tragica. Abbiamo già discusso di una prima peculiarità: la crisi strutturale propria del mondo arabo nel contesto della crisi generale del neoliberismo. L’altra particolarità è che questa regione ha sperimentato lo sviluppo per diversi decenni di una corrente di opposizione reazionaria, che è stata promossa per molti anni dagli Stati Uniti insieme al suo più antico alleato nella regione, il Regno saudita. Mi riferisco al fondamentalismo islamico, ovviamente – con le diverse componenti di questa corrente, di cui quella più importante è la Fratellanza Musulmana e la più radicale comprende al-Qaeda e il cosiddetto Stato Islamico (ossia l’ISIS).

Il fondamentalismo islamico è stato sostenuto da Washington come principale antidoto al comunismo e al nazionalismo di sinistra nel mondo musulmano durante la guerra fredda. Durante gli anni ’70, ai fondamentalisti islamici fu dato via libera da quasi tutti i governi arabi come contrappeso alla radicalizzazione giovanile di sinistra. Con il successivo riflusso dell’ondata di sinistra, divennero le forze di opposizione tollerate più importanti in alcuni Paesi, come l’Egitto o la Giordania, schiacciate in altri come la Siria o la Tunisia. Erano comunque presenti ovunque.

Quando iniziarono le rivolte del 2011, i gruppi che facevano riferimento alla Fratellanza Musulmana saltarono sul carro rivoluzionario e cercarono di dirottarlo per realizzare i propri scopi politici. Erano molto più forti di tutte le forze di sinistra rimaste nella regione, molto indebolite dal crollo dell’URSS, mentre i fondamentalisti godevano dell’appoggio finanziario e mediatico delle monarchie petrolifere del Golfo.

Di conseguenza, ciò che si è sviluppato nella regione non è stata la classica opposizione binaria tra rivoluzione e controrivoluzione. Era una situazione triangolare in cui c’erano, da un lato, un polo progressivo – quei gruppi, partiti e reti che hanno iniziato le rivolte e ne hanno rappresentato le aspirazioni principali. Questo ventaglio di forze era organizzativamente debole, tranne che in Tunisia, dove un potente movimento operaio (4) ha compensato la debolezza della sinistra politica e ha permesso in questo Paese all’insurrezione di realizzare la prima vittoria nel far cadere il presidente, scatenando così l’ondata regionale. Dall’altra parte, c’erano due poli controrivoluzionari, profondamente reazionari: i vecchi regimi, che rappresentano classicamente la principale forza controrivoluzionaria, ma anche le forze fondamentaliste islamiche in competizione con i vecchi regimi e che cercavano di impadronirsi del potere.

La situazione è stata quindi dominata dallo scontro tra questi due poli controrivoluzionari, che si è trasformata in uno “scontro di barbarie”, come io la definisco (5), di cui la Siria è l’esempio più tragico, con il più barbaro tra i regimi, quello siriano, che affronta la barbarie delle forze fondamentaliste islamiche. L’enorme potenziale progressivo rappresentato dai giovani che hanno iniziato la rivolta in Siria nel marzo 2011 è stato completamente schiacciato.

Molti di questi giovani hanno lasciato il Paese, perché non potevano sopravvivere né nei territori controllati dal regime né in quelli occupati dalle forze fondamentaliste islamiche. Gran parte del potenziale progressista siriano è stato quindi disperso in Europa, Turchia, Libano e Giordania. Parte di esso sopravvive all’interno del Paese ma, fintanto che la situazione di guerra persiste, sarà difficile che riemerga.

La situazione curda in Siria è una storia diversa. Il PYD/YPG curdo nella Siria nord-orientale è senza dubbio la più progressista di tutte le forze armate attive sul territorio siriano, se non l’unica forza progressista. Sono riusciti a sviluppare ed estendere il territorio sotto il loro controllo con l’appoggio degli Stati Uniti, perché Washington sotto Obama li ha visti come forze militari efficienti nella lotta contro l’ISIS. Avevano [gli Stati Uniti, ndt] il loro interesse nel combattere l’ISIS, ovviamente, poiché per loro rappresenta un nemico mortale. La prima cooperazione dei curdi siriani diretta con gli Stati Uniti è stata effettivamente nella battaglia di Kobane nel 2014, quando il supporto aereo americano, compresi i voli aerei, il lancio di armi è stato decisivo nel consentire ai combattenti curdi di respingere l’offensiva dell’ISIS. Vi era quindi una convergenza di interessi tra gli Stati Uniti, fornendo supporto aereo, nonché altri mezzi e risorse, e l’YPG, fornendo truppe sul campo.

Questo è quello che Donald Trump ha tradito, pugnalando i curdi alle spalle e aprendo la strada all’attacco nazionalista e razzista della Turchia contro di loro. La situazione per loro è diventata estremamente precaria in quanto ora sono costretti tra il martello della Turchia e l’incudine del regime siriano, tra sciovinismo turco e sciovinismo arabo – due progetti di pulizia etnica, convergenti sulla sostituzione dei curdi con gli arabi nelle aree di confine della Siria con la Turchia. Mosca sta aiutando entrambi in questo sforzo.

Ma il PYD/YPG non è riuscito a unirsi coerentemente con il resto della lotta contro il regime omicida di Assad …

Non darei la colpa principale a loro: nessuna delle forze armate dell’opposizione armata siriana era aperta a un vero riconoscimento dei diritti democratici e nazionali dei curdi. A dire il vero, i PYD/YPG non sono una reiterazione della Comune di Parigi come alcuni tendono a rappresentarli in modo abbastanza ingenuo. Eppure, con tutti i loro limiti e senza promuovere illusioni su di loro, rappresentano una forza organizzata significativa, la più progressista presente sul campo in Siria. Se prendiamo lo status delle donne come parametro principale – e questo dovrebbe sempre essere un criterio cruciale per tutti i progressisti – non c’è alcun paragone possibile con il PYD/YPG. A questo bisogna aggiungere che i loro compagni in Turchia guidano il Partito Democratico Popolare (HPD), l’unica grande forza politica progressista e femminista presente in quel Paese.

Quali sono state le lezioni teoriche e politiche più significative da trarre dal precedente ciclo di lotta rivoluzionaria per i marxisti? Spesso sentiamo l’argomentazione secondo cui il marxismo è “orientalista” ed è quindi inadatto alle società non occidentali. L’atteggiamento di Michel Foucault nei confronti della rivoluzione iraniana (1979) fu un esempio del tentativo di trovare la salvezza in un’altra alterità religiosa non occidentale, dichiarando la fine delle visioni universali dell’emancipazione umana, della politica di classe e degli strumenti teorici marxiani per comprendere il mondo.

Quindi perché credi che la teoria marxista sia uno strumento migliore e con più strumenti per dare un senso alle rivoluzioni e alle controrivoluzioni in Medio Oriente e nel Nord Africa? Quali sono le prospettive per una nuova generazione di attivisti marxisti di lingua araba a partire dal 2011 e in che misura ciò ha iniziato a succedere?

La visione orientalista della regione è quella che la descrive come destinata a rimanere eternamente bloccata, nel vedere la religione come parte della sua essenza culturale e come elemento che spiega tutto ed è sempre stata la motivazione chiave delle popolazioni della regione. Questa è una visione del tutto distorta, ovviamente, ed è anche molto impressionista in quanto ignora il passato e crede che il presente durerà per sempre.

Guardando il Medio Oriente e il Nord Africa negli ultimi anni, si può davvero avere l’impressione che le forze fondamentaliste islamiche siano importanti ovunque. Tuttavia, non è stato così alcuni decenni fa, specialmente negli anni ’50 e ’60, quando queste forze furono emarginate da quelle di sinistra molto più forti. Mi è stato chiesto qualche anno fa di scrivere una prefazione alla riedizione del testo Marxismo e mondo musulmano di Maxime Rodinson (6). Questa raccolta di articoli, molti dei quali sono stati scritti negli anni ’60, parla di una parte del mondo in cui le correnti di sinistra erano dominanti. Ho dovuto quindi informare o ricordare ai lettori questo fatto storico, per evitare che fossero sconcertati nel leggere il libro.

Pochi si rendono conto oggi che negli anni ’50 e ’60 si pensava ampiamente che la regione araba fosse sotto l’egemonia ideologica comunista. Un autore marocchino pubblicò nel 1967, in francese, un libro intitolato, L’ideologia araba contemporanea, (7) in cui affrontava quello che chiamava “marxismo oggettivo”, come un’ideologia diffusa nella regione. Con questa definizione intendeva dire che le persone usavano le categorie e le idee marxiste, nella maggior parte dei casi senza nemmeno essere consapevoli della loro origine.

Oppure prendi un paese come l’Iraq – un buon esempio. Oggi, chierici e mullah dominano la scena politica, specialmente tra gli sciiti. Ma se si torna indietro alla fine degli anni ’50, si scopre che lo scontro principale nel Paese opponeva i comunisti ai baathisti, [dal partito Baath o partito socialista della risurrezione araba. Ndt] con quest’ultimi che facevano riferimento a un’ideologia nazionalista che si definiva socialista. I comunisti furono particolarmente influenti tra gli sciiti e furono in grado di mobilitare centinaia di migliaia di persone nelle manifestazioni. Quindi, pensate a quell’Iraq e a quello di oggi: li separa un profondo abisso. Ma questo dimostra che non c’è nulla nei geni delle popolazioni della regione che li condanna a rispettare la guida politica delle forze religiose.

Il leader politico più popolare nella storia araba moderna fu indiscutibilmente Gamal Abdel-Nasser – presidente dell’Egitto tra il 1956 e la sua prematura scomparsa nel 1970. Si spinse il più lontano possibile a sinistra, entro i confini del nazionalismo borghese, realizzando una vasta nazionalizzazione dell’economia insieme alle successive riforme agrarie, che hanno promosso lo sviluppo industriale guidato dallo Stato e ha apportato un sostanziale miglioramento delle condizioni di lavoro, tutto questo su uno sfondo antimperialista e antisionista.

Sebbene si sia verificato in condizioni difficili e attraverso una dittatura, questa è stata una fase molto progressiva nella storia dell’Egitto ed è stata emulata in diversi Paesi arabi. Quando si osserva quella storia, ci si rende conto che il ruolo del fondamentalismo islamico negli ultimi decenni non è radicato in qualche natura culturale, come vorrebbe la visione orientalista. È piuttosto il prodotto di specifici sviluppi storici. Come abbiamo già detto, è in parte il prodotto dell’uso forte e prolungato da parte di Washington del fondamentalismo islamico in combutta con lo Stato più reazionario sulla terra, il Regno saudita, nella lotta contro Nasser e l’influenza dell’URSS nella regione araba e nel mondo musulmano.

Quando la primavera araba (come sono state chiamate le rivolte nel 2011) è sbocciata, una nuova generazione è entrata nella lotta su vasta scala. La maggior parte di questa nuova generazione aspira a una radicale trasformazione progressista. Aspirano a migliori condizioni sociali, libertà, democrazia, giustizia sociale, uguaglianza, compresa l’emancipazione di genere. Respingono le politiche neoliberistiche e sognano una società in netto contrasto con i programmi di quelle forze fondamentaliste islamiche che hanno dirottato o cercato di far cambiare rotta le rivolte e guidarle verso i propri obiettivi.

Esiste un enorme potenziale progressista nella regione e l’abbiamo visto tornare alla ribalta nella seconda ondata rivoluzionaria che si sta sviluppando. È iniziato nel dicembre 2018 con la rivolta sudanese, seguita a febbraio scorso dalla rivolta algerina e in ottobre da massicce proteste sociali e politiche in Iraq e in Libano. Il Sudan, l’Algeria, l’Iraq e il Libano sono in rivolta e tutti gli altri Paesi della regione sono sull’orlo dell’esplosione.

E il ruolo dello stalinismo nel mondo arabo?

L’Unione Sovietica e i partiti comunisti sotto la sua guida hanno rappresentato la forma dominante di “marxismo” nella regione per decenni. Ci sono stati diversi importanti partiti comunisti nella regione, tutti strettamente legati a Mosca. Questo significava che la letteratura che si autodefiniva marxista era fortemente dominata dallo stalinismo nella regione, negli anni ’50 e ’60. Con la comparsa della Nuova Sinistra su scala internazionale alla fine degli anni ’60 e ’70, le nuove traduzioni consentirono l’accesso agli autori marxisti critici e antistalinisti in arabo.

L’ascesa di una Nuova Sinistra nella regione araba fu favorita dalla sconfitta degli eserciti arabi nel giugno 1967, nella cosiddetta guerra dei sei giorni, che causò un duro colpo per Nasser e per il suo regime. Una larga parte della gioventù si radicalizzò, andando oltre il nasserismo e lo stalinismo, finendo in quello che spesso era un nazionalismo radicale di forma “marxista” piuttosto che semplice marxismo. La nuova sinistra araba è cresciuta significativamente alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70, ma non è riuscita a costruire un’alternativa alla vecchia sinistra e tanto meno un’alternativa ai poteri che ci sono ora.

Questo è il periodo in cui i regimi hanno usato il fondamentalismo islamico per stroncare la Nuova Sinistra sul nascere. La maggior parte, se non tutti, i governi arabi hanno scatenato e aiutato gruppi fondamentalisti islamici negli anni ’70, specialmente nelle università, come antidoto alla nuova radicalizzazione di sinistra. Hanno quindi contribuito in modo significativo al fallimento della sinistra radicale.

Naturalmente, quest’ultima ha la responsabilità principale della propria sconfitta. Mancava di maturità politica e di intelligenza strategica. La nuova radicalizzazione non andò molto oltre al “marxismo” superficiale e dogmatico precedentemente dominante, fortemente influenzato dallo stalinismo. Il marxismo era generalmente ridotto a pochi cliché. Ci sono state eccezioni, ovviamente, ma in generale la produzione intellettuale marxista originale in arabo è rimasta molto limitata – lasciando da parte i contributi di pensatori marxisti della regione che vivevano all’estero e scrivevano in lingue europee, come il compianto Samir Amin. L’eccezione più importante fu Hassan Hamdan, noto sotto il nome di Mahdi Amel. (8) Era l’intellettuale più sofisticato del Partito comunista libanese ed è stato assassinato da Hezbollah nel 1987. Un’antologia dei suoi scritti uscirà presto in una traduzione inglese.

Torniamo al presente: l’insurrezione algerina e la rivoluzione in Sudan hanno riacceso la speranza, così come le coraggiose proteste egiziane e le assemblee libanesi in piazza Riad al-Solh che rivendicano il rovesciamento dell’attuale regime. A rischio di porre una domanda impossibile, fino a che punto la gente comune nella regione ha imparato le lezioni politiche dalla precedente ondata di lotte? Che tipo di dinamica di massa è oggi in atto? In che modo gli oppressi e gli sfruttati hanno tratto lezioni dall’esperienza della lotta di massa? Hanno veramente imparato?

Hanno sicuramente imparato. I processi rivoluzionari di lunga durata sono cumulativi in termini di esperienza e conoscenza.Hanno imparato i punti di svolta in una congiuntura. Le persone imparano, questo succede anche ai movimenti di massa, ai rivoluzionari e anche ai reazionari, naturalmente, tutti apprendono. Un processo rivoluzionario a lungo termine è un susseguirsi di ondate di rivolte e contraccolpi controrivoluzionari, ma non sono semplici ripetizioni di schemi similari. Il processo non è circolare, deve andare avanti oppure degenera.

Le persone apprendono le lezioni delle esperienze precedenti e fanno del loro meglio per non ripetere gli stessi errori e non cadere nelle stesse trappole. Questo è molto chiaro nel caso del Sudan, ma anche per l’Algeria e ora anche per l’Iraq e il Libano. Il Sudan e l’Algeria, insieme all’Egitto, sono i tre Paesi della regione in cui le forze armate costituiscono l’istituzione centrale del governo politico. Naturalmente, gli apparati militari sono la spina dorsale degli Stati in generale, ma è il governo militare diretto che è peculiare in questi tre Paesi nella regione araba.

I loro regimi non sono patrimoniali. Nessuna famiglia possiede lo Stato al punto di fare tutto ciò che vuole. Lo Stato è piuttosto dominato collegialmente dal comando delle forze armate. Questi sono regimi “neo-patrimoniali”: ciò significa che sono caratterizzati dal nepotismo, dal clientelismo e dalla corruzione, ma nessuna famiglia ha il pieno controllo dello Stato, che rimane istituzionalmente separato dalle persone dei sovrani. Ciò spiega perché in questi tre Paesi i militari hanno finito per sbarazzarsi del presidente e del suo entourage al fine di salvaguardare il regime militare.

È quello che è successo in Egitto nel 2011 con il licenziamento di Mubarak, e quest’anno in Algeria con la fine della presidenza di Bouteflika, seguita dal rovesciamento di Bashir in Sudan, tutti e tre avvenuti grazie ai militari. Tuttavia, quando è accaduto in Egitto, ci sono state enormi illusioni popolari verso il ruolo dell’esercito, che si sono rinnovate nel 2013 quando i militari hanno deposto il presidente dei Fratelli Musulmani, Morsi.

Queste illusioni non si sono riproposte in Sudan o in Algeria nel 2019. Al contrario, il movimento popolare nei due Paesi è stato profondamente consapevole del fatto che i militari costituiscono il pilastro centrale del regime di cui vogliono sbarazzarsi. Il movimento in entrambi i Paesi comprende molto bene tanto che quando cantano “Il popolo vuole la caduta del regime”, intendono il governo militare nel suo insieme – non solo la punta dell’iceberg rappresentata dal presidente. Lo comprendono molto chiaramente sia in Algeria che in Sudan, a differenza di quanto accaduto in precedenza in Egitto.

Ma in Sudan c’è qualcosa di più. C’è una leadership che interpreta la consapevolezza delle lezioni tratte da tutte le precedenti esperienze regionali. Questo è dovuto principalmente alla fondazione della Sudanese Professionals Association (SPA), nata nel 2016 grazie all’iniziativa degli insegnanti, dei giornalisti, dei medici e di altre figure professionali che hanno organizzato una rete clandestina. Mentre era in corso la rivolta iniziata nel dicembre 2018, l’associazione si è sviluppata in una rete molto più ampia che coinvolgeva i sindacati dei lavoratori di tutti i settori chiave. Ha svolto un ruolo centrale negli eventi favorendo il movimento popolare. La SPA ha inoltre contribuito alla costituzione di un’ampia coalizione politica che ha coinvolto numerosi partiti e gruppi. Attualmente sono impegnati in un braccio di ferro politico con i militari. Hanno concordato temporaneamente un compromesso che ha istituito quella che può essere descritta come una situazione di dualismo di potere. Il Paese è governato da un consiglio in cui la leadership del movimento popolare è rappresentata accanto al comando militare. Questo è un periodo di transizione incerto che non può durare a lungo. Prima o poi, uno dei due poteri dovrà prevalere sull’altro.

Ma il punto chiave qui è che l’esperienza sudanese rappresenta un enorme passo avanti rispetto a tutto ciò che abbiamo visto dal 2011 e questo grazie all’esistenza di una leadership politicamente sagace. La SPA non si è fatta illusioni sui militari. Sono radicalmente contrari al dominio militare come al fondamentalismo islamico, in particolare in quanto entrambi erano rappresentati nel regime sotto Omar al-Bashir. Sostengono un programma molto progressista, compresa una notevole dimensione femminista. Questa è un’esperienza molto importante che viene osservata da vicino in tutta la regione.

Il movimento popolare in Algeria è sorprendente per aver organizzato enormi dimostrazioni di massa ogni settimana per diversi mesi. Ma non ha una leadership riconosciuta e legittima. Nessuno può pretendere di parlare in suo nome. Questa ovviamente è una debolezza, in netto contrasto con il Sudan. Le forme di direzione politica cambiano naturalmente nel tempo, ma non siamo entrati nell’era postmoderna delle “rivoluzioni senza leader”, come alcuni vogliono farci credere. La mancanza di leadership è un problema cruciale: una direzione riconosciuta è fondamentale per incanalare la forza del movimento di massa verso un obiettivo politico. Lo hanno fatto in Sudan, ma non in Algeria e non ancora in Iraq o in Libano.

In Iraq e in Libano, tuttavia, le persone ispirate all’esempio sudanese stanno cercando di creare qualcosa come la SPA. Ci sono tentativi in quella direzione, che coinvolgono insegnanti universitari insieme a vari professionisti. In Libano, hanno creato un’Associazione di donne e uomini professionisti, chiaramente ispirata al modello sudanese. Questo dimostra chiaramente come la comprensione derivata dall’esperienza funzioni a livello regionale.

Potresti approfondire ulteriormente gli aspetti più significativi dei movimenti di massa in Iraq e in Libano?

Entrambi i movimenti condividono una grande particolarità in quanto entrambi i Paesi, Iraq e Libano, sono caratterizzati da un sistema politico confessionale.

In Libano, [la divisione confessionale del potere, ndt] questo è stato istituzionalizzato dal colonialismo francese dopo la prima guerra mondiale in una forma vicina all’attuale sistema politico del Paese. In Iraq, è stato istituito dall’occupazione americana, molto più recentemente. Tali regimi politici settari prosperano naturalmente dalle divisioni confessionali. Nel loro contesto, le divisioni confessionali diventano la caratteristica distintiva della vita politica e del governo. Il settarismo è uno strumento molto pericoloso ed efficace per deviare la lotta di classe in conflitto religioso. È una vecchia ricetta, una versione di “divide et impera”: contrastare qualsiasi solidarietà di classe trasformandola in uno scontro verticale tra le sette. Le leadership nepotistiche religiose borghesi assicurano la fedeltà dei membri delle classi popolari appartenenti alla loro comunità confessionale alimentando le divisioni settarie e le rivalità.

Sia in Iraq che in Libano, l’accumulo di proteste sociali derivanti da una forma selvaggia di capitalismo che schiaccia la gente comune e deteriora il tenore di vita ha creato un enorme risentimento. L’esplosione sociale è stata innescata da una misura politica in Iraq – il licenziamento di una figura militare popolare – e da una economica in Libano – una tassa sulle comunicazioni WhatsApp. Queste misure hanno provocato un formidabile scoppio di rabbia popolare. In Libano, con sorpresa di tutti, l’esplosione ha interessato l’intero Paese e ha coinvolto persone appartenenti a tutte le confessioni. In Iraq, è stato per lo più limitato alla maggioranza araba sciita, ma questo è ugualmente significativo poiché la cricca dominante è la stessa sciita. Il movimento in entrambi i Paesi ha quindi ripudiato fortemente il settarismo a favore di un rinnovato senso di appartenenza popolare-nazionale.

In Libano, il settarismo era così radicato storicamente che sembrava essere una barriera molto difficile da rompere. È stato quindi molto sorprendente vedere le persone appartenenti a tutte le comunità religiose partecipare a una rivolta il cui slogan principale è diventato l’equivalente arabo della lingua spagnola “Que se vayan todos!” (Tutti se ne devono andare!), che è stata la chiave della rivolta popolare del dicembre 2001 in Argentina. La versione libanese dice “Tutti, significa tutti” – un modo per insistere sulla sconfessione della intera classe dominante, senza eccezioni. “Noi vs. loro” si è spostato da setta contro setta a una rivolta dal basso del popolo contro tutti i membri della casta dominante in alto, di qualunque setta politico-religiosa di appartenenza, sia sciita, sunnita, cristiana o drusa.

Hezbollah non è stato risparmiato – è questo è ancora più sorprendente dal momento che esisteva una sorta di tabù riguardo a quel partito, e in particolare il suo leader. È stato sorprendente vedere che la gente è andata in piazza nelle regioni sotto il controllo di Hezbollah nonostante la chiara posizione del partito contro il movimento popolare. Da allora, ci sono stati successivi tentativi di intimidire il movimento popolare da parte di criminali appartenenti a Hezbollah e al suo stretto alleato Amal, i due gruppi confessionali sciiti.

In Iraq, partiti e milizie legate al regime iraniano si sono impegnati a reprimere la rivolta popolare su una scala molto più elevata, con molte uccisioni. Questo perché la tutela di Teheran sul governo iracheno è uno dei principali obiettivi della rivolta popolare. Anche la recente esplosione di rabbia all’interno dell’Iran è stata accolta con una repressione brutale. Il regime teocratico iraniano conferma quindi che è una delle principali forze reazionarie della regione alla pari con il suo rivale regionale, il Regno saudita. Questo era già chiaro all’epoca dalla repressione del movimento popolare democratico in Iran nel 2009, nonché dal suo massiccio contributo alla spinta controrivoluzionaria del regime siriano a partire dal 2013 e dalla sua pesante repressione delle proteste sociali che si sono riaccese in Iran alla fine del 2017 e all’inizio del 2018.

Il ruolo delle donne nella seconda ondata del processo rivoluzionario nella regione araba è un’altra caratteristica molto importante e un’ulteriore indicazione del maggior grado di maturità raggiunto dai movimenti popolari. In Sudan, Algeria e Libano, le donne hanno partecipato in modo massiccio e molto visibile alle manifestazioni e ai raduni di massa, nonché alla loro direzione. Nei tre Paesi, le femministe sono state una componente cruciale dei gruppi coinvolti nelle rivolte. Anche in Iraq, dove le donne erano appena visibili nella fase iniziale delle proteste, sono sempre più coinvolte, soprattutto da quando gli studenti hanno aderito alla mobilitazione.

La grande domanda ora è: i movimenti popolari in Algeria, Iraq e Libano riusciranno a trovare il modo di organizzarsi, come hanno fatto i loro fratelli e sorelle sudanesi, al fine di amplificare l’impatto delle loro lotte e fare importanti passi verso il raggiungimento dei loro obiettivi o le classi dirigenti riusciranno a reprimere ciascuna di queste tre rivolte e a disinnescarle? Senza essere ottimista a causa della natura molto corrotta dei regimi che governano questa parte del mondo, ho molte speranze. La mia speranza, tuttavia, si basa sulla consapevolezza che esiste un enorme potenziale progressista, mentre sono perfettamente consapevole che questi obiettivi per essere realizzati saranno necessarie molta lotta, organizzazione e acume politico.

Note a cura della Redazione

1) Gilbert Achcar. People Want: A Radical Exploration of the Arab Uprising. University of California Press. 2013

2) Gilbert Achcar. Morbid Symptoms: Recapse in the Arab Uprising. Stanford University Press 2016

3) Kamal Abu Aita, esponente dei sindacati indipendenti. Politicamente si è definisce nasseriano. E’ stato nominato Ministro della manodopera e dell’immigrazione, fino a quando non è stato sostituito nel marzo 2014. Sul ruolo dei sindacati indipendenti egiziani vedere i testi di Gilbert Achcar People Want e Morbid Symptoms.

4) UGTT – Unione sindacale generale tunisina.

5) Achcar. Scontro tra barbarie, Alegre, 2006.

6) Maxime Rodinson: Marxisme et monde musulman. Paris, Seuil 1972.

7) Abdallah Laroul; L’ideologia araba contemporanea. Pref. di Maxime Rodinson. 1969 Mondadori.

8) Hassan Abdullah Hamdan (1936-1987) noto con il suo pseudonimo di Mahdi ‘Amel. E’ stato professore di filosofia all’università libanese di Beriut e poeta. Militò nel Partito Comunista Libanese diventandone portavoce. Venne assassinato all’età di 51 anni. I suoi testi più importanti, oltre ai testi di poesia, sono: Theoretical Introductions to Study the influence of Socialism on the National Liberation Movement, Conflict of Arab Civilization or Conflict of Arab bourgeoisie?, Theory in Political Practice: Research in the Causes of the Lebanese Civil War, Introduction to Critique of Sectarianism: The Palestinian Cause in the Ideology of the Lebanese Bourgeoisie, Marx in Edward Said’s Orientalism: Intelligence for the West and Passion for the East?, Introduction to the Critique of Sectarianism in the Sectarian State.